DISAGIO CONTEMPORANEO E CURA
Se dovessi individuare il denominatore comune delle varie forme che il disagio contemporaneo assume focalizzerei l’attenzione sull’eclissi dell’esperienza umana del desiderio. Una fatica a desiderare che accomuna i sintomi contemporanei come attacchi di panico, depressione, anoressia, bulimia, l’alcolismo, tutte le varie forme di dipendenza patologiche in generale tra cui anche quella dalla droga. Quella che più mi colpisce è il dilagare tra i giovani della depressione. In generale infatti la fatica a desiderare ha come suo naturale effetto la depressione. Se oggi assistiamo allo spegnimento del desiderio, se anche i nostri giovani fanno fatica a desiderare che cosa ha causato questo? Ritengo che la causa sia riconducibile ad una sorta di metamorfosi, allo stesso tempo individuale e sociale. La mancanza, da cui scaturisce l’esperienza umana del desiderio si è trasformata in vuoto. C’è una differenza tra la mancanza e il vuoto.
La mancanza non può essere riempita, non c’è un oggetto in grado di riempire la mancanza, ed il desiderio rappresenta la dimensione creativa, generativa della mancanza. Fondamentalmente desidero sempre quello che mi manca, ed in questo senso il desiderio è sempre un movimento di apertura verso l’Altro; ma nel nostro tempo la mancanza è diventata vuoto. Per esempio nella bulimia, o nell’obesità, la mancanza che diventa vuoto significa che si anatomizza nello stomaco. Il soggetto bulimico non fa più l’esperienza del desiderio, fa esperienza del suo corpo come corpo vuoto che necessita di essere riempito. Il rapporto del soggetto obeso o bulimico nelle sue abbuffate pulsionali ingovernabili verso l’oggetto non sono espressione del desiderio ma sono modi di riempire il vuoto, cioè la mancanza che si è trasformata in vuoto. Questa trama la ritroviamo anche nelle tossicomanie, nell’alcolismo, e nell’anoressia in forma invertita, nel senso che l’anoressia ha bisogno di sentire il vuoto, il proprio corpo come vuoto; l’anoressia è una forma di ossificazione del vuoto e l’anoressica si angoscia quando il vuoto che porta con sé è minacciato da un troppo di cibo. Nella necessità di preservare il vuoto e nell’esigenza di riempire il vuoto, ritroviamo la morte del desiderio. Questo significa che il soggetto non è più in rapporto con l’Altro ma entra in un cortocircuito che lo spinge ad essere solo in rapporto col proprio corpo, con l’oggetto da cui il proprio corpo dipende. Ma rimanendo sulla metamorfosi della mancanza in vuoto, chi l’ha prodotta questa metamorfosi?
Il responsabile di questa trasformazione nichilistica è quello che Lacan chiama il discorso del capitalista, e cioè quel discorso che sostiene che la vita umana troverebbe la sua soddisfazione, la sua felicità, la sua salvezza solo nel consumo dell’oggetto. Come a dire che l’oggetto di consumo è ciò che può guarire il soggetto dalla sua insufficienza. Siamo nel tempo del feticismo delle merci, in un tempo di un nuovo totalitarismo dell’oggetto, in cui il nuovo oggetto pare essere presentato dal mercato come la soluzione al problema dell’esistenza, al dolore di esistere. Questo oggetto che il mercato propone illimitatamente (anche la droga ne fa parte), non è mai un oggetto che soddisfa pienamente. Tutti gli oggetti che il mercato propone producono sempre nuovi vuoti. Facendo una riflessione aggiuntiva, anche i rapporti con gli esseri umani rischiano di essere pensati con il paradigma della merce. Rimanere fedeli allo stesso oggetto sia talmente impensabile nel nostro tempo in quanto esige il ricambio continuo dell’oggetto, dunque anche l’amore è pensato sul modello del televisore, del frigorifero; anche l’amore è a scadenza. Il mito è sempre nel nuovo oggetto, nuovo partner.
Il totalitarismo dell’oggetto è l’oggetto come ciò che svuota, non come ciò che riempe.
Promette di riempire ma in realtà svuota e rende i soggetti dipendenti dagli oggetti.
Nel tempo dell’eclissi del desiderio le dipendenze sono tutte forme dell’anti-amore, perché in primo piano abbiamo legami con partner che sono inumani. L’oggetto è un partner inumano che prende il posto del partner umano.
Perché meglio l’oggetto inumano all’umanità del partner? Perché con le persone non funziona come con gli oggetti, che dove li metti li trovi. Con le persone è un po’ più complicato. Freud diceva che l’unico matrimonio destinato a durare è quello dell’uomo con la bottiglia; nel suo cinismo Freud intendeva che la bottiglia la trovi dove la metti; si tratta caso mai di comprarne altre quando ne finisce una. E soprattutto, diceva Freud, perché la bottiglia non parla. Il matrimonio felice è con l’oggetto, non con un altro soggetto. Con l’Altro umano, e con l’Altro sesso noi non abbiamo la sicurezza di trovarlo là dove lo lasciamo. L’Altro non è come la bottiglia, non solo perché parla, ma perché è libero di andare via, di avere altri desideri. Non possiamo esercitare sull’Altro quel diritto di proprietà assoluto che esercitiamo sugli oggetti. La dipendenza dall’oggetto salva dalla dipendenza pericolosa dall’Altro,previene l’abbandono, previene il trauma della separazione, il trauma della ferita; l’oggetto è un balsamo, un antidolorifico, qualcosa che anestetizza le emozioni , i sentimenti. Il dubbio sulla presenza dell’Altro porta il soggetto a scegliere l’oggetto come presenza rassicurante, l’oggetto come antidoto all’angoscia. La dipendenza dalla sostanza, dall’oggetto come tentativo di trattare l’angoscia che scaturisce dalla dipendenza dall’Altro.
E allora il problema è: come si curano queste patologie di dipendenza dall’oggetto? Tre sono i fattori fondamentali:
1) Rendere possibile la cura rendendo la psicoanalisi accessibile a tutti, non escludendo chi non ha mezzi.
2) Ridare valore alla parola. Non solo il nostro tempo non dà più valore alla parola, ma il discorso del capitalista distrugge la parola attraverso la potenza dell’oggetto. Questo lo dicono chiaramente i tossicomani a volte in seduta: cosa vengo a fare qua, si parla, si parla, ma io voglio l’oggetto, la sostanza, l’unica ragione di vita è la sostanza, l’oggetto, come dicono molti pazienti, le parole sono fumo, aria fritta. Senza entrare nel dettaglio di come farlo, ma la prima operazione da fare è restituire valore alla parola, che al tempo stesso significa restituire valore a chi parla allo psicoanalista. Questa è l’offerta speciale della psicoanalisi, l’ascolto. Certo, anche un prete ascolta. Ma c’è una grossa differenza tra l’ascolto dello psicoanalista e l’ascolto di un prete. Intanto lo psicoanalista non giudica, e non è da poco parlare a qualcuno che non giudica, che non valuta, che non spiega, che non vi dice come siete fatti, cosa dovreste fare, che ascolta facendo il testimone mettendo insieme i pezzi. Dove si trova un ascolto così oggi? quando anche lo psicologo ha preso la via della pedagogia autoritaria: ti spiego come devi fare il bravo genitore, ti spiego come devi fare con i tuoi figli, ti spiego come devi fare a guarire dall’anoressia, ti spiego cos’è il senso di sazietà, una pedagogia che dimentica l’importanza dell’ascolto della parola. Nella clinica il primo gesto con pazienti che tendono ad agire senza pensare, che non hanno più il valore profondo della parola, è restituire il valore della parola, rimettere il soggetto in un rapporto di parola.
3) Un’ulteriore operazione clinica, quella più difficile,è quella di staccare il soggetto dall’oggetto. Se l’oggetto è il demone del soggetto, si è impossessato del soggetto, l’operazione consiste nel mettere qualcosa tra soggetto e oggetto per consentirne la separazione. Nei casi molto gravi la parola non è sufficiente, c’è bisogno di mettere tra il soggetto e l’oggetto un’istituzione, organizzazione degli spazi, una comunità.
Altrimenti possiamo avviare simbolicamente in altro modo nella cura questa separazione; come lo possiamo fare ?
Non certo attraverso l’uso del sapere, il terapeuta che spiega il perché della malattia, che cerca di spiegare come sarebbe il benessere, l’aver autostima, tutte cose che non servono a nulla, cadono nel vuoto queste prediche morali. La psicoanalisi non è una predica morale anche perché quando uno psicologo inizia a chiederci: ma tu sai amare?
Bisognerebbe chiederglielo a lui se sa amare. Non c’è niente di peggio di uno psicologo che vuole fare il padrone e spiegare come devi vivere. La psicoanalisi si pone l’obiettivo di liberare l’azione terapeutica da ogni esercizio autoritario, ma allora su cosa agisce? Non sulla spiegazione, non sull’appello alla volontà. Sappiamo che la volontà fa ammalare. un’anoressica è ammalata di volontà; ha un’ipertrofia della volontà, l’anoressica è un soggetto puro della volontà, può se vuole non mangiare per mesi, vivere di thè e brodini per mesi. Il problema è che non si guarisce con la volontà, né col sapere. Qual’è il trucco, che se usato dall’analista può funzionare ? Sicuramente l’ascolto della parola, ma non è sufficiente, ci vuole qualcos’altro.
Questo trucco è la figura stessa dell’analista, cioè la relazione particolare che si struttura con l’analista stesso, che noi chiamiamo transfert, il quale diventa un oggetto nuovo che possiamo mettere tra il soggetto e l’oggetto della sua dipendenza. Questo transfert ha la finalità di staccare un po' il soggetto e l’oggetto ma di far nascere nel soggetto, grazie a questo nuovo spazio un altro desiderio, non solo il desiderio di essere magra o di bere,o di sprofondare nel mio computer, ma il desiderio d’Altro.
Cosa incontrano questi soggetti durante la cura? Incontrano un più di vita, qualcosa in più, qualcosa che mette in movimento.
Cosa permette il movimento? Il desiderio!
Cosa permette un più di vita? Il desiderio!